“La bellezza è nell’occhio di chi guarda” è una frase che mi è sempre piaciuta, tanto da dipingermela su una mano, senza nessuna pretesa di essere originale. Compare in un sacco di autori a partire dalla Grecia antica, passando per Shakespeare e Goethe, fino ai giorni nostri. Un adagio buono per tutte le stagioni, in fondo.
“Beauty lies in the eye of the beholder“
La prima volta che l’ho letta e che mi è rimasta impressa avevo non più di tredici anni e l’ho letta in un fumetto. Potrei sbagliare, ma mi par di ricordare che si trattasse de: “Il bambino a una dimensione”, pubblicato nel 1972 negli Oscar Mondadori, una raccolta di strisce di Charlie Brown.
Parodiando Marcuse che con “L’uomo a una dimensione” dettò l’agenda delle rivolte sessantottesche, forse quello fu il primo libro di fumetti di Ch.M.Schultz ad arrivare in casa mia, in mano a mio padre, che nelle pause delle sue letture storiche si divertiva come un matto a leggere fumetti d’autore. La frase me la ricordo vagamente in bocca al saggio Linus, ma poteva anche essere Snoopy. La ricordo però pronunciata come cortese risposta ad un complimento. Fu questa particolare accezione che mi colpì. Tuttora la intendo in quel senso: se vedi del bello in me, o in quello che faccio è perché c’è della bellezza dentro di te. Se faccio qualcosa di bello non è tutto merito mio, anche tu che ammiri stai facendo la tua parte.
Ma allora la bellezza dove si trova?
Molto meno mi piace l’interpretazione più diffusa, come ad esempio, la citazione da David Hume:
”Beauty in things exists merely in the mind which contemplates them.“
E cioè: “La bellezza delle cose esiste soltanto nella mente che le contempla.” Praticamente un manifesto del relativismo estetico, della serie: ”Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”, per restare sul casereccio e senza scomodare mamme e scarrafoni.
Eppure in quella bellezza che sonnecchia dentro l’occhio dell’osservatore e che non si sveglia finché non entra in risonanza con una creazione al di fuori di lui, trovo il senso più bello della frase.
Potrei aggiustare il tiro di Hume dicendo:
“La bellezza delle cose esiste anche nella mente (nell’occhio) di chi le contempla.”
L’osservatore deve avere la sua idea di bellezza.
Posso creare opere mirabili ma se in chi le osserva non esiste almeno la categoria della bellezza, se non c’è almeno un barlume di armonia, le opere restano inerti, morte, inutili. L’arte è lì per essere contemplata da chi possiede già un’idea, magari confusa, magari incolta, ma un’idea di bello dentro di sé. Non credo né all’artista eroe incompreso e incomprensibile, né all’osservatore che decide di attribuire valore artistico a ciò che gli pare a seconda della convenienza o dell’emozione del momento.
Credo invece che l’opera d’arte stabilisca una relazione, un dialogo tra chi crea e chi osserva. E credo e che le due parti debbano avere un terreno, un linguaggio in comune. Ogni artista cerca di svegliare nell’osservatore la sua idea di bellezza. Lo provoca, a volte, lo schernisce, lo prende in giro, lo compiace, lo adula o semplicemente lo accontenta, quando non ha voglia di rischiare. Non può mai fare a meno di considerare i neuroni specchio del suo osservatore.
Spiegato in poche parole anche in questo brevissimo video estratto da un film con Ben Kingsley , Elegia d’amore.
E tu, dov’è che trovi la bellezza, dentro o fuori di te?
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